La Città Sublime 1975 ITA 720p WEB-DL x264
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- TypeHD
- LanguageItalian
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Year: 1975
Country: Italy
Director: Franco Brocani
Language : Italian

Nel 2004 la Cineteca di Bologna ha prelevato, in accordo con il Gruppo Gagliardo, il deposito della Corona Cinematografica, una casa di produzione di Roma rimasta attiva fino al 1997. Si parla di 3500 titoli, realizzati nell’arco di una quarantina d’anni, che concernono cortometraggi documentari, film d’animazione e cinegiornali; in pratica, l’eredità di una casa cinematografica impegnata nell’industria del
cinema corto: fenomeno che ha caratterizzato la storia dell’industria cinematografica italiana dal dopoguerra fino agli anni Ottanta e che spesso è stato dimenticato a causa della mediocrità delle sue manifestazioni, mediocrità imposta da una repressione conservatrice che temeva la forza eversiva di questa forma di cinema.
L’impressione è quella di trovarsi di fronte all’effetto di una produzione patologica. Chilometri e chilometri di pellicola impressionati grazie all’assistenzialismo statale che preferiva privilegiare la superficialità di una produzione conformista e disinteressata come può essere quella della Corona. Cancro del mercato cinematografico, ogni anno escono da questa fabbrica del documentario culturale decine e
decine di titoli realizzati seguendo un modello elementare di divulgazione culturale. Dalla Corona sono passati un po’ tutti, tanto c’era sempre bisogno di nomi nuovi per imbellettare il cartello dei credits; era una specie di luogo comune del microuniverso del documentario: o “palestra” per cineasti alle prime armi o dispensatrice di “film alimentari”. Fra questi innocui “elzeviri in pellicola”, dove i titoli si ripetono e si somigliano, esiste però una serie di 26 cortometraggi che va a delineare il singolare caso di monsieur Brocani. Questa che segue è la storia di un’aberrazione:
Agli inizi degli anni Cinquanta compaiono sulle riviste specializzate di cinema i primi segni di malcontento nei confronti dei risultati che avevano portato le nuove normative approvate dallo Stato per far fronte alle rinate esigenze del mercato cinematografico italiano. In poco più di cinque anni, attraverso decreti, circolari e tre leggi, il nuovo governo democratico italiano era arrivato a controllare il mercato del documentario. Si stanziano contributi governativi a favore della cinematografia nazionale che vanno a finire nelle tasche di quei produttori, meglio conosciuti dagli esperti del settore con il nome di “appaltatori”, che ben poco avevano a che fare con la volontà di creare una nuova cinematografia nazionale e che potevano esser ricondotti alla cerchia clientelare creatasi intorno all’apparato statale.
Fin dal 1945, il governo di Andreotti inizia a tessere le basi per un controllo indiretto del sistema cinematografico. Anche se promotore di una politica antifascista, promulga leggi, le “nuove leggi sul cinema”, che a parte l’abolizione del monopolio statale poco si discostano dalle disposizioni adottate dal regime (con l’aggiunta, oltretutto, del reinserimento della censura secondo i parametri del regio decreto del 1923). Dalla programmazione obbligatoria ai ristorni fino alle concessioni delle provvidenze, trascurando completamente la rinascita di istituzioni pubbliche come Cinecittà o l’Istituto Luce, si decide per un piano di rinuncia “alla gestione in proprio di una struttura cinematografica perfettamente integrata, perché è assai più produttivo ottenere il controllo indiretto dell’industria privata”.. Il primo
intervento a favore dei film nazionali, sia di lungo che di corto metraggio, prevede un rimborso dei diritti erariali calcolato “sull’introito lordo degli spettacoli, nei quali i film stessi sono stati proiettati per un periodo di 4 anni dalla data della prima proiezione in pubblico”. Alla massiccia importazione di prodotti stranieri che stava invadendo il mercato domestico si pone rimedio con la legge n. 379 del 16 maggio del 1947, assegnando agli esercenti di sale cinematografiche un numero di giornate da riservare alla proiezione di quei film nazionali, attività che sarebbe stata garantita attraverso l’adozione di un borderò, o registro delle programmazioni, e si istituisce l’Ufficio centrale per la cinematografia per stabilire quali film meritino il contributo governativo. Ovviamente i vari incentivi sono indirizzati ai produttori dei film, che se non si erano ancora convinti della possibilità di un guadagno facile, si decidono senza più ombra di dubbio con l’emanazione della legge n. 958 del 29 dicembre 1949,. meglio conosciuta come legge Andreotti, che concede ai cortometraggi un ulteriore contributo.
Questi principi di intervento economico furono i presupposti della “corsa ai miliardi”, che venne disputata non sulle lunghe distanze ma bensì sui brevi metraggi. Campo di battaglia fu il cortometraggio documentario che, a causa delle intrinseche caratteristiche strutturali di brevità e forse perché forma di cinema più immediata e pura, e dunque politica, divenne il prodotto controllato dallo Stato e di conseguenza lo strumento di speculazione privilegiato dagli affaristi negli anni del centrismo.
Avanza, in questo modo, una produzione invisibile e viziata, che si avvale delle più disparate strategie speculative per usufruire dei supporti statali, non più un incentivo alla produzione ma una forma di guadagno da cui ricavare il massimo del profitto a tutto discapito della qualità dei film. Quindi: inizialmente comprare i documentari da altre case di produzione, che necessitano di liquidità, per poi godere delle sovvenzioni per gli anni che rimanevano creando una fantomatica casa di produzione, successivamente acquistare i documentari bocciati per riproporli alla commissione e questa volta, però, beneficiare del contributo, per giungere infine a concedere prestiti ai produttori indipendenti e incassare gli interessi direttamente sui premi vinti da questi prodotti.
Nel giro di quindici anni la situazione precipita e degenera nel monopolio controllato dal “cartello” (Edelweiss, Documento film, SEDI, Corona Cinematografica, Patara, Astra) che, in accordo con la distribuzione, si riserva circa l’80 per cento degli introiti. Ovviamente tutto ciò va ad inficiare la qualità di queste pellicole. Come ricorda Lino Miccichè:
fra le tante res relictae del cinema italiano il cortometraggio documentario è, forse, la più derelitta di tutte: considerato non più che tristemente necessario da leggi e istituzioni pubbliche, prodotto all’insegna della tirchieria, sgradito agli esercenti e agli spettatori, emarginato da mercati e circuiti commerciali, disperso quasi subito dopo il primo e l’unico sfruttamento, esso appartiene a un regno di precari cinefantasmi.
Un panorama fatiscente che viene confermato dalla Legge Corona del 1965, dove lo Stato, perpetuando il paradosso di finanziare un cinema invisibile, insiste sulla tipologia degli aiuti al cortometraggio attraverso l’elargizione dei premi di qualità. All’ennesima riconferma dell’arcinoto gioco di potere, però, scatta la rappresaglia. Si urla allo scandalo e la stampa specializzata viene nuovamente invasa da pubblicazioni di denuncia e protesta, prima fra tutte il Libro bianco sul cortometraggio italiano, ultimo respiro dell’ANAC.
Una della case di produzione maggiormente incriminate è appunto la Corona Cinematografica. Più volte chiamata in causa, non solo fa parte di quelle ditte che detengono i record nelle assegnazioni dei premi di qualità ma primeggia per costanza:
Notasi in argomento l’esemplare coerenza della Corona che in tutti e tre gli anni considerati [1962-1963-1964] si vede assegnare alla programmazione lo stesso numero esatto di documentari ogni anno (36).
E, mentre nel ’71 l’amministratore Ezio Gagliardo replica alle insinuazioni di favoritismo con affermazioni come questa:
la Corona Cinematografica potrà attestare come abbia realizzato ogni cortometraggio con gli stessi criteri necessari per la produzione di un lungometraggio, con tutto l’impegno della scelta dei temi, nella realizzazione artistica e tecnica [...] con tutta cura nel[lo] impianto organizzativo e produttivo, nel montaggio, nella edizione,
è curioso scoprire che già da un anno un certo Franco Brocani era stato chiamato a lavorare alla Corona per l’escamotage dei documentari da bocciare e che, nella libertà d’espressione più assoluta, aveva realizzato un cortometraggio a trimestre. Si giunge all’aberrazione più perversa: produrre appositamente documentari non idonei, che la commissione avrebbe per forza di cose bocciato, per poter vantare, all’interno della propria produzione, un numero significativo di cortometraggi ai quali non erano stati riconosciuti i requisiti per beneficiare delle provvidenze statali.
Non a caso a realizzare questi prodotti è proprio un regista che si posiziona al di fuori di tutte le possibili definizioni di genere, un artista che concepisce la pratica cinematografica come solipsistica creazione. Franco Brocani può essere considerato come un’aberrazione cinematografica, sia se si considerano le sue opere, sia rispetto al ruolo rivestito nel panorama del cinema italiano. Mai pienamente circoscrivibile all’interno di influenze o correnti, si aggira fra le possibili intersezioni che il campo dell’arte può generare.
Cineasta sperimentale, che intraprese la sua attività da regista contemporaneamente alla formazione della CCI, portò avanti una pratica di ricerca che non trova confronti con le espressioni underground dei coevi compagni italiani (piuttosto i rapporti sono da ricercarsi fra i film della neoavanguardia internazionale, il binomio Huillet-Straub e registi occasionali provenienti da altri ambiti artistici come Carmelo Bene e Mario Schifano), diventando “altro cinema” dal cinema off stesso. La sua è una sperimentazione cinematografica che vive in totale autonomia, chiusa in se stessa e irriducibile ai canoni del cinema indipendente, underground o più ampiamente inteso di ricerca, cortocircuito nei confronti di tutte le generalizzazioni del caso poiché anticonvenzionale rispetto a ciò che di più distante è esistito ed esiste dal cinema mainstream. Brocani porta avanti la sua battaglia in antitesi al cinema commerciale ma solo dal punto di vista teorico poiché ne persegue le tipologie produttive, ossimoro cruciale che spiega l’ibridismo di tale espressione cinematografica e la sua singolarità rispetto alle filmografie dei film-maker italiani, che invece fanno dell’uso critico delle tecnologie il loro tratto caratterizzante. È attraverso questa intersezione, una delle tante che va a comporre il sincretismo di questo personaggio, che si spiega come due figure così antitetiche nel sistema cinematografico italiano, la conformista Corona e l’eccentrico Brocani, trovino un punto di incontro, uniti nei bisogni e separati nelle intenzioni, nel piano dei “documentari da bocciare”.
Entrato nelle grazie dell’amministratore unico della Corona, il professore Ezio Gagliardo, grazie ad un contatto incontrato al CSC, Brocani inizia a collaborare alla lavorazione di alcuni cortometraggi. Introduce Luca Patella alla sezione dei film d’animazione, produzione nella quale la casa cinematografica si stava cimentando dopo che la nuova legislazione aveva previsto per questo tipo di prodotti un aumento del 10 per cento del premio governativo, e insieme realizzano i due cortometraggi Screk! (1966) e ¿Chi mi pettina? (1967). Nel 1967 Gagliardo gli affida la regia di un documentario d’arte che diventa È ormai sicuro il mio ritorno a Knossos, un lavoro che ha alla base l’arte figurativa e concettuale “dei due pittori Mario Schifano e Luca Patella e la crisi della loro tradizionale attività di riduzione dello spazio nei termini formali della pittura”, nonché testimonianza del primo incontro con Mario Schifano e citazione di alcuni
frammenti girati dal pittore in 16mm che andranno a comporre Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani. Iniziano così, per Brocani, gli anni dell’inteso rapporto con Schifano e l’esordio alla regia con l’apocalittico Necropolis (1970). Richiamato alla Corona durante la stagione degli scandali, firma la “Proposta per documentari in economia”, documento che contiene i soggetti dei primi tre cortometraggi
che verranno realizzati all’insegna di questa pratica speculativa e che, non a caso, si scostano dalla produzione di genere, i primi due lavori realizzati per la Corona rientrano all’interno del documentario d’arte, e in totale anarchia raggiungono la deriva di quanto di più eccentrico e assurdo il regista abbia mai potuto girare.
Il carattere clandestino di questo gruppo di opere (11 cortometraggi realizzati nell’arco di due anni, dal
1970 al 1971) fa in modo che illeciti e sotterfugi siano praticati in maniera indiscriminata. In una giornata di lavorazione può succedere che Brocani riesca a realizzare materiale per due o tre cortometraggi andando a risparmiare sulla pellicola vergine, una delle spese più consistenti. Le errate indicazioni sui documenti burocratici, che definiscono il film a colori mentre se ne possiede solo copie in bianco e nero, non sono casuali. Viene erroneamente dichiarato che il cortometraggio è stato girato su pellicola a colori
in ragione dei maggiori contributi che la politica di Andreotti riservava ai film prodotti con questo tipo di pellicola e ai produttori che ne incentivavano il commercio. Infatti, un’altra delle pratiche speculative è la creazione di fantomatiche case di produzione minori, che si rifanno alla Corona, quindi delle coperture per accaparrarsi un numero sempre maggiore di contributi stanziati a favore dei produttori e presentare altri cortometraggi, ergo maggiori provvidenze, passando come produzioni indipendenti. Un moltiplicarsi di identità che coinvolge anche Brocani, ritrovabile sotto lo pseudonimo di Pier Giulio Schellini alla regia di altri due cortometraggi. Inoltre, per concorrere ai premi, i cortometraggi devono essere stati prodotti nel trimestre considerato per l’assegnazione dei contributi governativi e poiché a fare
da riferimento è la data di stampa della prima copia si lascia che alcuni dei negativi camera stagnino nello stabilimento di sviluppo e stampa più tempo del previsto, in modo da avere delle riserve da utilizzare qualora per un trimestre sia necessario presentare un documentario da far bocciare. Una volta acquietata la protesta, anche perché i ritardi sempre più prolungati con i quali le commissioni assegnano le sovvenzioni statali hanno reso privo di interesse e ormai morente il campo del cinema corto, Brocani continua comunque a realizzare cortometraggi a soggetto per la Corona, questa volta nella formula dei documentari di montaggio (secondo una politica all’insegna del qualunquismo che relegava il documentario alla messa in serie di cartoline filmate), sodalizio che si esaurisce alla fine degli anni Settanta, con un isolato ritorno nell’84 quando gira il documentario sulla poesia con Amelia Rosselli e Dario Bellezza, per un totale di 26 cortometraggi. Nello stesso lasso di tempo riesce a farsi finanziare solo due lungometraggi, il film d’esordio Necropolis poco prima di impegnarsi nell’impresa dei bocciati e La via del silenzio (non considero il film d’assemblaggio Voci da un pianeta in estinzione, realizzato sempre per la Corona con i frammenti dei cortometraggi già girati), discrepanza che rende questo gruppo di opere un ritrovato campo di indagine, proprio perché il cortometraggio può essere considerato come un frammento di un’opera più espansa, e soprattutto all’interno della cinematografia di Brocani il cortometraggio assume una valenza di elemento compositivo, poiché il regista struttura i propri film lungometraggi per blocchi, all’interno dei quali una situazione si manifesta senza consequenzialità
rispetto alle altre ma per logica associativa, proponendo una natura totalitaria dell’opera che la rende un oggetto composito i cui “elementi si associano senza trasformarsi e l’unità scaturisce dal fatto che ogni punto della superficie contiene intera tutta la superficie […] che ogni piccola sezione del film contiene tutto il film”. Dieci anni, quelli passati alla Corona in uno stazionamento quasi forzato, che hanno i connotati dell’apprendistato che registi come Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Luciano Emmer, Ermanno Olmi, Luigi Comencini, Dino Risi e Vittorio De Seta fanno qualche anno prima, anch’essi, nel campo del documentario; infatti, era prassi comune che le prime esperienze avvenissero nel terreno del documentario, punto di congiunzione tra diverse generazioni di registi che hanno avuto la possibilità, godendo di margini di libertà impossibili per un lungometraggio, di proporre discorsi, di definire le proprie caratteristiche stilistiche e di sperimentare l’uso della macchina da presa come pratica teorica.
La forma breve del cortometraggio diventa per Brocani un elemento favorevole all’approfondimento della messa in pratica di un cinema di performance che si basa su tematiche filosofiche e letterarie e lo porta a elaborare un progetto teorico che gli consente di proseguire, anche dopo la fine della stagione avanguardistica, un discorso sperimentale di cinema. Riflessioni maturate, dunque, grazie al consistente numero di lavori girati per la Corona Cinematografica, nei quali può concedersi la leggerezza di sperimentare, rielaborare e improvvisare soluzioni visive che vanno a comporre la sua mappa identitaria di regista. Quindi 26 frammenti girati nella più assoluta libertà espressiva, germinali esperimenti di una poetica che verrà poi elaborata nelle opere ufficiali o, viceversa, simulacri di idee delle quali era già stata trovata una soluzione visiva. Su semplici espedienti figurativi fa parlare maestri della letteratura visionaria come Paul Valéry, Maurice Blanchot, Henri Michaux, Stanislaw Witkiewicz e Jorge Luis Borges con le voci prestate per l’occasione di amici, compagne, poeti, attori e, perché no, anche dello stesso Brocani, secondo un procedimento di contaminazione che alterna pezzi famosi a considerazioni personali, che fungono da collante fra i diversi testi. Una produzione artigianale che porta all’interno di queste pellicole una schiera di volti inediti e non solo, come Mario Schifano, Luca Patella, il “dinosauro” dell’arte contemporanea Stanley William Hayter, Marino Masè, Amelia Rosselli, Dario Bellezza, Luis Waldon e Dominot Schreiber, e di volti deformi, dagli stessi freaks in La città sublime a personaggi della mitologia antica e moderna come Frankenstein, figura amata e cardine di tutto il suo cinema, il Minotauro, King Kong, il centauro e i trogloditi de L’immortale di Borges, per giungere a presenze la cui alterità è esistenziale, come il naufrago, il clochard o la zingara. Sono questi due aspetti, l’utilizzo contrappuntistico dell’asse verbale e la chiusura fra i bordi del quadro del bizzarro e dell’informe, che rendono i cortometraggi di Brocani dei saggi di un cinema che riflette su se stesso, sulla sua essenza di apparenza, sul potenziale perturbante intrinseco all’immagine, dove la figura del corpo, liberata dalla parola e da un rapporto di verosimiglianza con il quotidiano, ha una presenza preponderante e la rilettura cinematografica che il regista fa di Paul Valéry, il riutilizzo di immagini di freaks e la smisurata passione per il mostro di Frankenstein rientrano all’interno di questa ricerca tesa a studiare la fascinazione del corpo nella sua doppia valenza di sensualità e mostruosità.
Corpo del reato, cortocircuiti di una patologia produttiva, la maggior parte di queste immagini fu impressionata per non esser mai vista, ma l’eccezione vuole (ancora una volta) che oggi questi film vengano proiettati in sale di cinema e festival. (Petra Marlazzi)

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