P.P. Pasolini - Lettere Luterane - 1976 [Pdf-Ita][TNTVillage]
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P. P. Pasolini - Lettere Luterane - 1976 [Pdf-Ita][TNTVillage] [Tntvillage.Scambioetico]
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- Dettagli -
Autore: Pier Paolo Pasolini
Titolo: Lettere Luterane
Pagine: 102
Anno: 1976
Nazionalità: Italiana
Genere: Raccolta di articoli giornalistici
Dimensione del file: 467 Kb
Formato del file: PDF
- Trama -
Le Lettere luterane, pubblicate postume nel 1976, dovrebbero essere lette insieme agli Scritti corsari del 1975.
Per due motivi, essenzialmente: la perfetta contemporaneità, da un lato; l’impegno politico-morale comune sul “progresso come falso progresso”, dall’altro (il progresso senza vero sviluppo culturale, e quindi fine a se stesso e dannoso).
Pasolini lavorava per dei “diritti civili” che sono, prima di tutto, i “diritti degli altri”. «Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti», e «sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono, o addirittura ci rinunciano.»
L’impegno era orientato, nel 1975, a un’élite di sinistra opposta al Palazzo; ma anche al futuro, che — in quanto futuro — non era immediatamente condizionato dal presente politico: uomini e donne, oggi, “adorabili” perché hanno o un’ignoranza ingenua dei propri diritti o una cultura altruistica che lotta per i diritti degli altri.
Gli Scritti corsari prendono posizione su dati di fatto oggettivi: i capelli lunghi, la “scomparsa delle lucciole” nell’Italia non più agraria, il caso Braibanti, le prime stragi terroristiche, il divorzio e l’aborto.
Nelle Lettere luterane il problema centrale non è più la descrizione dei fenomeni, ma una loro interpretazione complessiva, con una proposta di soluzione: il grande Processo (la maiuscola, che lo apparenta a quello di Kafka, è stata scritta da Pasolini) alla classe politica italiana (il “Palazzo”), e rivolto contro i “gerarchi democristiani”, in particolare: «Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale.» I politici dovrebbero essere «accusati di una quantità sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente […]: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna […], distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani […], responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne…». Cioè la responsabilità di tutto, e quindi un processo su tutto il mondo degli italiani del 1975.
Tra i capi d’accusa appaiono anche responsabilità morali, più che penali: ad esempio la «degradazione antropologica degli italiani», passati nel giro di una generazione dalla campagna alla città, e sedotti dal consumismo, imposto prima della creazione di un tessuto sociale serio. «In ciò non c’è niente di sfumato, di incerto, di graduale, no: la trasformazione è stata un rovesciamento completo e assoluto.»
Il Processo non doveva essere un Processo kafkiano — quindi allegorico, letterario e immaginario — ad un Palazzo kafkiano (il Castello: allegorico, letterario e immaginario). La proposta tendeva alla realtà, con il solo difetto di essere espressa da un poeta-scandalo e in uno stile da poeta (iterazioni, anafore, iperboli), che non poteva avere né rispetto umano né un ascolto scientifico: «Nessuno ha mai risposto a queste mie polemiche se non razzisticamente, facendo cioè illazioni sulla mia persona. Si è ironizzato, si è riso, si è accusato. Ciò che io dico è indegno di altro; io non sono una persona seria.»
Per questo motivo Pasolini invocava urgentemente una traduzione e una precisazione della sua denuncia nei linguaggi professionali dell’economia politica e della giurisprudenza: così non fu, e su questo fallimento scrive Alfonso Berardinelli nell’introduzione della ristampa 2003 (pp. VIII-IX), facendo i nomi di chi avrebbe potuto ascoltare e tradurre, e non lo fece.
Il lettore, oggi, potrebbe interrogarsi, e informarsi — al contrario degli interlocutori mancati nel 1975 — sulla reale fattibilità del Processo che non c’è mai stato e sulla sua utilità contro il degrado antropologico (che era il vero assillo di Pasolini, come dimostra tutta la prima parte delle Lettere luterane, in forma di trattato pedagogico ad un giovane Gennariello napoletano ancora libero dalla rovina consumistica). Potrebbe anche indagare, per proprio conto, sul possibile (o impossibile) rapporto tra queste accuse e la successiva morte di Pasolini, in circostanze che da una parte coincidono con la versione ufficiale (un casuale omicidio nell’ambiente gay), dall’altra presentano aspetti poco chiari (in Internet è facile reperire i testi della controinchiesta di Oriana Fallaci, che trovò testimoni dell’omicidio).
L’Italia del 1975 è un mondo che oggi non è immaginabile: è, prima di tutto, uno spazio in cui la violenza politica (rivoluzionaria o controrivoluzionaria) è in grado di agire sùbito con chiarezza, senza gradi intermedi. In questo spazio e in questo tempo la politica della violenza (rivoluzionaria o controrivoluzionaria) non è l’ultima tecnica, in mancanza di meglio, per autoimporsi: ma la prima, spudoratamente. Quindi: senza un’analisi preliminare, e filologica, dei modi di gestire la violenza, ambiente per ambiente, non è possibile stabilire la verità sui casi degli anni Settanta: ammesso che esista una sola verità e non un intreccio mostruoso di poteri e violenze, enormi e coesistenti come i capi d’accusa del Processo.
Dopo la raccolta dei dati, non sarà tardi per fare quel Processo: alla menzogna, ora, se non alle persone.
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